Discorso sulla felicità

discorso sulla felicità

Discorso sulla felicità

 

Quando si parla di Settecento letterario, le prime cose a venire in mente sono la nascita dell’Illuminismo e dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert di cui tanto e forse troppo abbiamo sentito parlare tra i banchi di scuola e oltre.

Il mio oltre in questo caso ha compreso anche un esame universitario in cui mi sono trovata di fronte a pagine su questo secolo ma colto in un aspetto completamente diverso, quello legato a qualcosa di immateriale: i sentimenti.

Ma gli Illuministi non erano tutti protesi verso la razionalità, la logica, la scienza? Sì e no. È opinione diffusa che gli intellettuali di questo periodo fossero tutti chiusi all’interno del loro metodo scientifico senza porsi domande sull’altra parte, le discipline umanistiche, i sentimenti e le passioni che invece saranno il cuore del prossimo Romanticismo europeo. In parte è così, in parte invece, la parte che prenderò in considerazione in questo post, si rapportò con altro, andando a scavalcare o meglio ampliare quell’ideologia dominante.

Parlo di intellettuali come i fratelli Verri, tra l’altro fondatori assieme a Cesare Beccaria, della rivista letteraria per eccellenza dell’epoca, Il Caffè. Siamo nel 1764. Ma cosa ha spinto questi letterati a porsi domande sulla secolare questione della felicità? Sì, perché è di questo che si parla. Si cominciò a parlare di felicità in relazione al più generale concetto di benessere per il conseguimento di una società migliore, più razionalmente organizzata e, come scrisse Pietro Verri nel suo Discorso sulla felicità nel 1781, “se non proprio felice, tale almeno da rendere più piccola la nostra infelicità”.

Il più grande dei Verri era convinto che i mezzi per sottrarre gli uomini dall’infelicità si andavano moltiplicando e che “gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi.” Un concetto su cui si batté fermamente riguardava la speranza. Molti contemporanei, tra cui il francese de Maupertuis, autorevole rappresentante dell’epoca, consideravano la speranza il peggiore dei mali per le illusioni che faceva nascere ed in seguito nutriva nel cuore dei poveri uomini. Verri afferma il contrario: è proprio la speranza che accende la fiamma della futura felicità dell’uomo. Si tratta di un modo originale di approfondire la filosofia sensistica, che vedeva nel dolore l’elemento prevalente della vita e riconduceva il piacere sopratutto alla sua cessazione. Dunque anche i piaceri derivati dall’Arte non sono altro che ennesime illusioni per la sospensione di dolori ancora più grandi come il tedio, la noia(chiamata poi spleen da Baudelaire), la malinconia.

Allora cosa c’è di felicità in tutto questo? È decisamente una visione pessimistica della vita, non a caso il giovane Leopardi ne rimarrà affascinato, sopratutto per quanto riguarda la teoria dei desideri che scavalcano ogni cosa e condannano l’uomo a desiderare costantemente ciò che non potrà mai ottenere.

Oppure come Maupertuis che, nel suo Essai de philosophie morale, scriveva: “Tutti i divertimenti degl’uomini provano l’infelicità di lor condizione. Non per altro motivo, che per evitare le fastidiose percezioni, quello giuoca agli scacchi, quell’altro corre alla caccia, tutti in occupazioni serie o frivole cercano l’oblio di loro stessi. […] fintanto che dura, ella perde l’idea che la tormentava; gl’altri con fumar delle foglie d’una pianta, cercano di rendere stupida la noia loro, ed insensibile”. È una rappresentazione miserevole della condizione dell’uomo, che si rifugia in piaceri effimeri e temporanei: sono i rimedi vacui a quel male di vivere che sarà oggetto di riflessione ed ispirazione per molti poeti, a cominciare dai Simbolisti fino ad arrivare al nostrano Novecento.

Vivere meno infelice che si può e scordarsi di sé. Una sorta di felicità praticabile, quasi fosse un allenamento da ripetere quotidianamente per tenersi in forma. L’infelice nuoce prima di tutto a sé stesso, è vittima di sé stesso, atteggiamento nocivo che si ripercuote sul benessere della società, pensiero tra i più importanti dell’Illuminismo stesso.  “Non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante“, un concetto che nella società attuale che desidera tutto, subito, sempre diviene un monito piuttosto che una mera constatazione. Ma come spesso capita in Letteratura, concetti espressi secoli prima di noi trovano attualità e riscontro in ogni epoca. L’esercizio alla felicità consigliato dagli Illuministi credo sia l’unico modo per assaporarla davvero.

discorso sulla felicità

Note finali:

Ho scritto questo post agli inizi del 2017. Ho aperto questa bozza oggi per caso, in cerca d’ispirazione per un articolo sulla Giornata Mondiale del Libro e dei Diritti d’Autore. Mi sono ritrovata ancora una volta in ciò che avevo letto/scritto e dopo qualche revisione ho deciso di postarlo, vedendolo un po’ come una coincidenza significativa: dopotutto per chi legge, uno degli esercizi più belli alla felicità sta proprio nell’aprire un libro e perdercisi.

 

 

Sabrina Turturro
sabrina.turturro@gmail.com

Sabrina Turturro | Bookish person. Photography and movie enthusiast. Art, travel and tv shows addicted. A dreamer. Instagram, Snapchat, Facebook: nebuladaphne nebuladaphne@gmail.com

1Comment
  • Christian D'Amato
    Posted at 14:22h, 24 Aprile Rispondi

    A me vengono in mente Gramsci con il “pessimismo della ragione ma l’ottimismo della volontà” e infine il grande Lacan che consiglia di stare attenti a ciò che desideriamo perchè una volta raggiunto non lo vogliamo più.

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