10 Mag La magnifica di Arnaldo Colasanti, recensione
La magnifica
“Il mio più grande male è stata la timidezza. Sono vissuto nascondendomi: ho fatto di tutto affinché gli altri non si preoccupassero del mio dolore. Ho cercato di dire che ero un animale: per me era facile vivere, essere socievole e divertire quelli accanto a me. E questo coincideva, però, con una solitudine in cui si rannicchiava la mia spiritualità che, per troppo rigore, per passione, per pura radicalità, non volevo fosse esposta e fosse conosciuta.”
Parlare di questo libro per me è difficile, perché difficile è stata sia la fase di lettura sia il riorganizzare le idee una volta ultimato.
Arnaldo Colasanti, affermato critico letterario ed autore di numerosi saggi riguardanti la letteratura nostrana, in questo romanzo atipico s’immerge negli aspetti più scomodi del nostro panorama letterario.
Spiegarne la trama è piuttosto semplice perché, in realtà, una trama convenzionale non c’è: il protagonista, Pietro Aprile, famoso scrittore, viene convocato per un viaggio premio – nella lussuosa classe Magnifica degli aerei Alitalia, dalla quale il romanzo prende il titolo – a New York, accompagnato da altri autori italiani affermati, scelti dalla Vecchia, operatrice culturale che controlla come un grande fratello il mondo dell’editoria. L’intera vicenda si svolge all’interno della sala d’attesa dell’aeroporto Leonardo da Vinci, ma sopratutto nella mente dello stesso Aprile, nella quale il lettore viene scaraventato senza alcun preavviso.
Durante questa interminabile attesa, Aprile mette in scena un monologo interiore che costituisce l’intera narrazione, senza censurarsi in alcun modo. Al centro della sua graffiante, anzi cattiva invettiva c’è innanzitutto il colorito gruppo di scrittori che lo accompagnano: si passa dall’Esordiente, vittima degli aspetti meno letterari della letteratura, tutto preso da sé stesso e dagli inviti mondani, allo Scrittore Impegnato. Ma sono tutti stereotipi, non ci sono personaggi realmente definiti e caratterizzati ed è questo il primo punto che non mi ha convinta.
Il monologo di Aprile si fa via via più denso e ciò mi ha rallentata parecchio durante la lettura perché dalla trama mi aspettavo un romanzo vero e proprio e questo non lo è. Un flusso di coscienza inarrestabile, cinico, che mescola insieme passato e presente e sembra non lasciare spazio alcuno alla speranza. La cosa che ho però apprezzato è stata la bravura di Colasanti/Aprile – Piero Aprile altri non è che il suo alterego – di mettersi in gioco e d’immergersi in quello stesso mondo che lui viviseziona in modo così brusco.
Ecco, in Italia esistono due tipi di scrittori: quelli fichi che vendono sì e no cinquemila copie e non contano niente, fanno ogni tanto, su un giornale, l’inutile querelle a proposito della fantomatica “nuova letteratura”; poi, gli altri, quelli che vendono a man bassa i loro panini ammuffiti, le lacrime o i baci sui polpastrelli della televisione, le belle storie da classifica, i gialli interessanti di scrittori ripieni come tacchini cattivi e che, in fondo poi, contano ancora meno.
In mezzo a questo che mi azzardo a chiamare delirio letterario, ci sono però momenti di lucidità talmente disarmanti che mi hanno fatto riflettere non poco: il quadro che Colasanti dipinge con pennellate così violente rispecchia tristemente la realtà; quando afferma che il mondo è dei vili e non ama i talenti non riesco a dissentire totalmente da lui, per quanto lo vorrei. Parla delle scuole di scrittura citando una delle più famose in Italia, la Scuola Holden, e lo fa senza peli sulla lingua, senza risparmiare critiche e sagace ironia:
Primo: essere contemporanei, sopratutto veloci e superficiali; bisogna avere in poppa il gusto nauseante degli altri. Due: devi essere ironico e freddo; al posto del sarcasmo che è intelligente, metti il cazzeggio che è furbo. Tre: non raccontare mai qualcosa che ti prema davvero, non tirare fuori le tue fragilità. Anche le confessioni vanno ammiccate, come le scarpe senza calzini. Quattro non ammirare nessuno; gli scrittori sono fichi quanto più non abbiano capito niente e quanto più dimostrino che non debbono insegnare nulla. Cinque o sei all’ennesimo: semplice, sii semplice e sopratutto fatuo, il lettore ha un secondo per capirti e poi si distrae; una una lingua chewing gum e spensierata, fai smash, cerca la battuta, nega qualsiasi spiritualità.
Con poche e gergali parole riesce ad inquadrare quella che costituisce purtroppo la fetta più ampia della moderna letteratura e non solo italiana: critica spietatamente non solo gli scrittori ma anche i lettori, definiti come una massa informe dai gusti fin troppo superficiali.
Se vi sembrano tanti pensieri sparsi e perché è il libro stesso ad essere così, un salto da una questione ad un’altra come un caotico saggio che non segue una direzione precisa ma l’andamento ondeggiante dei pensieri, così come nascono. Questo, assieme alle altre caratteristiche citate prima, non mi hanno fatto apprezzare particolarmente il romanzo anche se mi sono ritrovata a concordare su tutti i pensieri di Piero Aprile. Sicuramente buona parte di questo giudizio non troppo positivo è influenzato da quelle che erano le mie aspettative che poi non hanno trovato riscontro: definire “La magnifica” un brutto libro non sarebbe corretto perché semplicemente non lo è, così come la scrittura di Colasanti. Non è un libro facile né tanto meno un libro per tutti, ma sicuramente qualcosa su cui riflettere a fine lettura rimane.
Titolo: La magnifica
Autore: Arnaldo Colasanti
Casa Editrice: Fazi editore.
Pagine: 234
Costo: 17,50€ (omaggio casa editrice)
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