20 Ott Le gioie violente hanno violenta fine: le Anime alla deriva di Richard Mason
“Anime alla deriva… mi tuffai a capofitto nel mare, e di conseguenza ho acquisito una più profonda conoscenza dei fondali, delle sabbie e delle rocce, che se fossi rimasto a riva, sul prato, a fumare una stupida pipa, e a prendere un tè accompagnato da consigli sensati”. -John Keats
La teoria secondo la quale un lettore venga inesorabilmente attratto da titoli affini in maniera totalmente causale, ancora una volta nel mio caso ha trovato riscontro. “Anime alla deriva” era sul banchetto della mia bancarella di fiducia assieme ad altri Einaudi dalle copertine un po’ ingiallite che mi attirano sempre come una falena alla luce: il titolo ed il prologo hanno fatto il resto. Non sapevo cosa aspettarmi, non conoscevo l’autore prima e poi ho scoperto essere il suo esordio ad appena ventidue anni.
Mia moglie si è sparata ieri pomeriggio. O almeno questo è quanto ritiene la polizia, e io interpreto la parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo. Vivere con Sarah mi ha insegnato a ingannare me stesso, e l’ho trovato anch’io, come lei, un eccellente modo per imparare a ingannare gli altri. Naturalmente io so che lei non ha fatto niente del genere. Mia moglie era troppo equilibrata, troppo ancorata al presente per pensare di farsi del male. […] Era incapace di provare rimorso. Sono stato io a ucciderla.
Il romanzo si apre con queste prime, forti righe. Il protagonista, James Farrell, ormai vecchio, ha ucciso sua moglie Sarah Harcourt a sangue freddo e non prova affatto rimorso per il suo gesto. È qui che la storia prende avvio, in un lungo racconto a ritroso della sua vita adolescenziale e non passata tra i rampolli dell’alta borghesia londinese con malcelata indifferenza fino al momento casuale, fatale, dell’incontro con Ella Harcourt, cugina di primo grado di Sarah ed unico, vero amore di James.
È strano il modo in cui dettagli apparentemente innocui, come la scelta di un paio di calze, possano mettere in moto una catena di eventi che, rincorrendosi l’un l’altro, acquistano un tale slancio da diventare la forza trainante della tua vita. Lo trovo bizzarro; bizzarro e un po’ inquietante. Ma esistono le prove, direi; e chi sono io per confutarle?
L’impostazione del romanzo è senza dubbio teatrale, lampante nelle scene chiave del suo svolgimento. Si avverte pressante il senso tragico fin da subito e poco c’entra che la narrazione prenda avvio con un omicidio: è solo la punta dell’iceberg di un incastrarsi di avvenimenti saturi di conseguenze per ognuno dei personaggi che ho apprezzato molto. Anche i secondari, come Eric Vaugirard – il mio preferito tra tutti – o l’eccentrica Camilla Boardman non solo sono fondamentali per l’evolversi del racconto ma possiedono delle peculiarità caratteriali ben specifiche, dettaglio che è bene non dare per scontato.
Attraversano la vita, succede che il futuro si restringe e il passato si espande. Allora non potevo sapere che di rado il futuro è come sembra, che il presente si esaurisce in un batter d’occhio, che il passato è un’Atlantide, un’isola sprofondata nel mare che non potremo mai più sperare di raggiungere.
Le passioni travolgenti del romanzo mi hanno richiamato alla mente senz’altro Shakespeare: “Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si consumano al primo bacio”. Citazione abusata ma mai più conforme secondo me alla definizione di Anime alla deriva, dove in gioco ci sono solo sentimenti totalizzanti: l’amore, l’odio, la gelosia. “È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”: questa volta il prestito viene dall’Otello e la bocca dalla quale escono queste parole è quella di Iago, sua nemesi. La figura nella nemesi nel romanzo si sdoppia e si ritrova nelle cugine, Ella e Sarah, entrambe vittime e carnefici l’una dell’altra e di loro stesse, le uniche a tenere in mano le redini del palcoscenico su cui gli altri si muovono timorosi, in primis proprio James.
L’amore di Ella e James sarà fuoco e polvere da sparo che si consumano al primo bacio: ma è davvero una colpa, oppure bisogna ricercare altrove l’origine del loro peccato? È qui che entra in gioco un’altra impostazione tragica, forse l’impostazione tragica per eccellenza: quella greca. Ho rivisto i tragici greci nei loro pensieri e senz’altro nella maledizione di famiglia che sembra aver accompagnato da sempre la dinastia degli Harcourt ma su cui non mi soffermo per non rovinarvi una parte fondamentale della storia.
La loro colpa è la Hybris: la tracotanza, la superbia, che si riferisce ad un’azione empia compiuta nel passato e la cui colpa ricadrà a catena su tutta la discendenza.
Mandammo il nostro mondo in frantumi con l’arroganza di giovani dai: tradizione, responsabilità, condizionamenti sociali; tutto si sbriciolò sotto la violenza dei nostri attacchi. Pensavamo di ricreare la società a nostra immagine. E, facendo questo, dimenticammo il nostro posto in essa e nell’ordine celeste. […] Nella nostra ubris abbiamo scordato noi stessi. Abbiamo scordato che la distruzione esige una ricostruzione, che i cuori delle persone sono fragili, che toccarli con qualsiasi cosa non sia un amore corrisposto è male.
È evidente quanto questo romanzo mi sia piaciuto. Ne ho bevuto le pagine, saggiato la prosa e sottolineato tanti passaggi. La magia delle coincidenze letterarie mi porta sempre bene: io sono contenta d’aver trovato questo romanzo per caso – ed ora che ho finito di scrivere queste recensione ho acquistato un’altra sua opera, Noi – quello che spero è che, con le mie parole, io sia riuscita a farlo trovare anche a voi.
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